CRITICA DI ALESSANDRA REDAELLI (2015)Insostenibili leggerezze
“Ecco, se mi si chiedesse di definire la magia di Annalù in una sola parola, credo che userei “cortocircuito”.”
“Più la scrittura è trasparente e più è visibile la poesia.”
García Márquez, Dell’amore e di altri demoni, 1994
La prima volta che ho visto dal vivo i lavori di Annalù mi trovavo in un ambiente acquatico. Le luci soffuse si moltiplicavano sulla superficie liquida, percorsa da una vibrazione leggera, e sulle piccole piastrelle al fondo della vasca si rifletteva la danza – una danza lenta, appena percettibile – di quelle silhouettes morbide e fluttuanti. Era l’epoca delle Meduse.
La vetroresina, lì, era celata dalla stoffa delicata delle sottovesti e quegli animali impossibili, immensi, bellissimi e vivissimi creavano nell’ambiente la suggestione di un incantesimo. Mi era rimasta addosso per diverse ore una fascinazione stupita. Quello che mi aveva colpito fin da subito, dalla prima occhiata, era il senso di “leggerezza potente” che emanava dalle opere. Una presenza incombente, totalizzante e tuttavia sussurrata.
Ecco, se mi si chiedesse di definire la magia di Annalù in una sola parola, credo che userei “cortocircuito”. Il cortocircuito mentale che immediatamente si scatena quando si coglie l’ossimoro che sta alla base di tutta la sua poesia. Il senso, appunto, di quella leggerezza potente, assertiva; il sussurro della materia che pur restando sussurro è tuttavia ineludibile; la sensazione di una natura viva, vivida, respirante sottesa però dalla palese lusinga dell’artificio, dell’impossibile, della creatura che può esistere, sì, ma soltanto nei sogni; il senso dell’istantaneo, dell’immediatezza, della fugacità così mirabilmente congelato in un presente eterno; la scultura che si impone nelle tre dimensioni, che conquista lo spazio e che nondimeno – vi sfido a negarlo – è assolutamente, incontrovertibilmente liquida.
Una delle chiavi di questo miracolo di equilibrismo sta nella materia del suo lavoro. Scoperta con gioia, appresa con infinita pazienza, in un percorso arduo di vittorie e di sconfitte, conquistata, amata e odiata, rivelata in tutte le sue possibilità, domata – forse – ma mai del tutto, la vetroresina ha dato ad Annalù il senso fisico e concreto di un desiderio che nella sua testa e nel suo cuore esisteva da sempre, forse da prima della sua nascita. Forse da prima ancora della nascita di suo padre.
Ecco la vetroresina, ecco la magia di declinarla in forme uniche, vibranti, mobilissime eppure immobili. Annalù la incontra e vi si riconosce. Trasparenza solidificata. Il senso di una tenera fragilità reso eterno in una materia che in realtà fragile non è. Perché lei, Annalù, arma la sua vetroresina in lana di vetro (e nel verbo “armare” c’è già tutto, non è vero?). Ma la sensazione resta intatta. L’incantesimo è compiuto. Quello che vuole regalare al mondo, infatti – e lo racconta con quel suo sguardo che sembra sempre sorridere anche quando è seria – è il senso della freschezza, dell’immediatezza. L’istante perfetto di una goccia che si frantuma in schizzi nell’aria.
Un’immediatezza ardua come una lotta.
Il viso protetto da una maschera munita di filtri a carboni attivi, le mani coperte da doppi guanti in lattice, Annalù affronta la vetroresina come una guerriera, perché quel materiale così incantevole e leggiadro, durante la lavorazione può rivelarsi un temibile nemico. Lo scalda, lo modella, lo accarezza, lo plasma, lo allunga, lo sgocciola, lo corteggia, lo blandisce, lo incanta e se ne lascia incantare. Un lavoro faticoso, sfiancante, per prove ed errori, frustrante, talvolta, ma quando il pensiero si traduce in realtà, qualche volta in una realtà ancora più splendente di quella che si era pensata, la sensazione è di quelle che fanno battere il cuore. Cinquanta pezzi, cinquanta battaglie, cinquanta momenti in cui si è chiesta se ce l’avrebbe fatta. Cinquanta petali. Ecco che cosa sta alla base della Peonia, leggera come una fantasticheria, accogliente come un grembo di donna. Non una peonia: l’anima della peonia. (Viene da dire, guardandola nel suo imponente splendore, la grande dea madre di tutte le peonie).
Ed è proprio l’anima della natura – anima nel suo preciso significato di respiro – che Annalù ci regala. Anima di fiore o di albero, anima di farfalla o anima fatta di farfalle, sciame vibrante di pensieri pronti a spiccare il volo, miracoloso frutto di una metamorfosi che ancora ci lascia spiazzati e senza fiato nella sua perfezione.
Perché la natura di Annalù non è un racconto per immagini, ma piuttosto un racconto per suggestioni, per sensazioni che toccano il cuore prima di passare attraverso la percezione, e agli organi preposti arrivano in seconda battuta, di rimbalzo.
A ripercorrere la sua storia si resta colpiti dalla coerenza implacabile che la sottende. Fin dagli inchiostri, dai dipinti. Assetata di trasparenza, avida di leggerezza, anche quando dipinge lo fa per sottrazione.
Smacchia, toglie, libera, strappa via il superfluo alla ricerca dell’essenza. E poi c’è quell’opera emblematica, quell’Autoritratto del 2001 in cui c’è già tutta l’Annalù di oggi, anche senza trasparenze, gocce, petali e colature. L’autoritratto è un omino in bilico su una fune. Che sia un omino lo si deduce al primo sguardo, anche se la forma è poco più che una struttura verticale, una freccia. Sta in piedi per qualche miracolo di equilibrio, ma ci sta. E tutto il suo essere è sostanziato di buste di carta. Buste, sì. Quelle che una volta, tanto tanto tempo fa, si usavano per mandare lettere. Lettere d’amore, di saluti, di racconti, di storie, di amicizia, di vita. Un omino fatto di messaggi leggeri, in posizione precaria e tuttavia caparbiamente attaccato a quel suo instabile equilibrio, orgoglioso e felice, si capisce benissimo.
Poi arrivano le installazioni più complesse, nelle quali si sente già il profumo di quello che sarà poi. Biancaneve (2003) è un albero vero, spogliato, a cui sono appese foglie imprigionate nella vetroresina. La natura e l’artificio giocano di sponda. E da lì il legno, i lasciti del fiume accanto al quale vive ore (nella casa-palafitta che fu della sua nonna), carichi di vita e di ricordi, continueranno a ritornare, raccolti con amore e catturati nella vetroresina ancora umidi, per conservare in eterno qual palpito di vita. Le piume e le farfalle compaiono già in quegli anni, come un motivo ricorrente. E proprio sciami di farfalle si librano dai piedi in bitume e ceramica (o in cemento e resina) che poi, qualche anno dopo, torneranno nella versione trasparente in opere emblematiche della sua evoluzione.
Se qualche volta sembra prevalere la tentazione astratta, come nei Codex o nei Mandala, la visione ravvicinata regala puntualmente la sorpresa dei petali, degli sciami, delle ali trasparenti. E quando le guardiamo bene, queste ali, quando ci concentriamo nel dettaglio ecco che scorgiamo la ramificazione leggera delle vene che le percorrono, il palpito caldo della vita. Così come quella che scorre, sotto forma di linfa, lungo i sentieri segreti dei petali e delle foglie.
E così scopriamo, ancora una volta, che la tenera Annalù, la floreale, leggera Annalù ci ha preparato un altro incantesimo. La leggerezza è in realtà respiro di corpi caldi e vivi. Non di fiori fatati, si parla qui, ma di carne e di sangue. In questa nuova mostra più che mai. Le grandi Peonie, le maestose Orchidee hanno petali vibranti, sussurranti, percorsi da un brulicante mondo sotterraneo di cui non arriveremo mai ad afferrare per intero l’essenza ma di cui siamo certi di avvertire il profumo; emanano un richiamo sensuale, ci seducono per catturarci in un abbraccio caldo. Mentre nei luoghi oscuri delle Isole, sotto fronde misteriose che si sostanziano di materia volatile, tra i nascondigli scabri nelle cortecce, si annidano microcosmi insondabili, dove piccole esistenze nascono, si sviluppano, amano, muoiono e infine, decomponendosi, diventano altra vita. Nell’istante eterno. Per sempre.