CRITICA DI DANIELA DEL MORO (2011)L’alchimia è la leggerezza
“Annalù riesce a semplificare l’ancestrale concetto di tempo. Nei suoi tentativi di fermare nella “resina” il suo scorrere.”
“Ebbe in quel momento
la certezza di un mutamento,
nella percezione dell’atmosfera, forse,
o nel respiro delle cose.”
(M. Tournier)
Nell’ultimo testo scritto per Annalù, ormai tre anni fa, chiudevo lasciando agli artisti che come Lei possiedono il raro dono della “leggerezza” (Calviniana), il compito ed il dovere di aiutarci a far “volare un Angelo”, ovvero un tentativo evolutivo affinchè l’arte ritorni al senso della storia, alla sana educazione del Bello, al sensibile ed alla riscoperta dei “silenzi”.
Di fronte, oggi, alla qualità della sua opera, si può rilevare come la giovane artista di S. Donà del Piave, non abbia mai smesso di ricercare quell’altrove, quella complessità di rapporti e situazioni del vissuto che, accanto ad una impressionante padronanza delle tecniche di realizzazione, portano lo spettatore ad una visione che cattura e trattiene il respiro nella risonanza di forme, materia e nuova condivisione di “battiti”.
L’istante e la memoria non cessano di incontrarsi nel suo lavoro, come la letteratura, la poesia, il fascino dei grandi filosofi, le affabulazioni letterarie, le cadenze ritmiche, la voce e il cuore della più alta spiritualità, presagi e rimembranze.
Togliendo la voce (forse inconsciamente) al suo disseminato “parco” di strumenti lavorativi, l’artista ne ha fatto cantare “vortici” e trasparenze: investendoli di passato, li ha fatti risuonare di presenze.
E’ iniziato con un “Messaggio ricevuto”, opera installazione in ferro, carta, e resina con “calco del suo corpo” (nel 2000), questo cammino da equilibrista perennemente in viaggio su una corda trasparente, legata alla vita da piume e foglie; è iniziato così, con un messaggio che sussurrava, allora, la sua tenacia, la sua presenza leggera, ma profonda, sicuramente molto più del suo Piave che ancora le scorre nelle vene, ed è continuato negli anni su itinerari di mappe millenarie che spostavano corpo e mente su una piccola barca di carta, con remi di vetro ed una improbabile vela di radici e foglie intrecciate…
Un po’ Marco Polo, l’animo di Annalù, quello delle “Città invisibili” di Italo Calvino, che raccontava ad uno stanco e deluso interlocutore, Kublai Kan, nipote del grande condottiero Gengis Kan, di tante città visitate nelle sue ambascerie, tutte con nomi di donna, città che hanno affascinato anche Anna, perché sono ispirate di volta in volta – come i suoi lavori – alla memoria, al desiderio, ai sogni, ai segni, agli occhi e al cielo; sono città come Valdrada, che non a caso da il titolo ad una sua bellissima opera-scultura, città che nascono sulle rive di un lago: “(…) con case tutte verande una sopra l’altra e vie alte che affacciano sull’acqua i parapetti fatti a balaustra. Così il viaggiatore vede arrivando due città: una diritta sopra il lago e una riflessa capovolta (…) e la sua immagine speculare, cui appartiene la speciale dignità delle immagini, questa loro coscienza, vieta di abbandonarsi al caso a all’oblio (…) lo specchio ora accresce il valore delle cose, ora lo nega”. Città e racconti descritti per offrire spunti e riflessioni, cosi come ogni lavoro di Annalù tenta naturalmente un dialogo profondo e intimo sia nella visione dell’insieme, sia nei ragionati titoli. Una viaggiatrice del tempo, un pò Marco Polo quindi e un po’ Qeen Mab, la regina “levatrice delle Fate” di Shakespeare, nel racconto suggestivo dove Mercuzio, animo più leggero e passionale del rivale Romeo, spiega la sua filosofia nella descrizione di un sogno: “La Regina appare su un guscio di nocciola, lunghe zampe di ragno sono i raggi delle sue ruote; d’elitre di cavalletta è il mantice; di ragnatela della più sottile i finimenti; roridi raggi di luna i pettorali; manico della frusta un osso di grillo; sferza un filo senza fine: (…) ed è scarrozzata di un equipaggio d’atomi impalpabili.”
Una delicata sensazione di leggerezza e respiro dunque, mai disgiunta però da una volontà di precisione e determinazione, questo il quadro che mi piacerebbe dare di Annalù. Precisione e determinazione, mai vaghezza o abbandono al caso, amore per la natura in tutte le sue forme, cuore ed occhi di bambina nell’assaporare ogni nuova sperimentazione. Negli anni di frequentazione con la sua anima d’artista, questo è sempre stato un percorso costante di volontà espressiva e di studio: tante telefonate ed incontri per confronti costruttivi e liberi pensieri. Ecco quello che amo ed ammiro di Annalù, la sua libertà assoluta di mente e cuore, la sua impossibilità di fermare lo scorrere dei pensieri, la curiosità sana e intelligente che pone sempre tutto in discussione, il suo passato così presente nel legame con la famiglia e gli affetti più veri, la sua serenità accanto a Marco – uomo sensibile e poeta del vivere – la sua trasparenza ed il suo darsi senza riserve, il suo mettersi a nudo di fronte alle sue opere per donartele, non solo per fartele osservare…
Così si arriva oggi ad un lavoro più maturo, dove gli elementi e le tecniche che negli anni l’hanno accompagnata, hanno preso ancora nuova forma e spessore. Da quel “Messaggio ricevuto”, abbiamo ricevuto noi tanto e tanta condivisione di emozioni: dall’impalpabilità delle piume con un Icaro malinconico e consapevole, ai voli improvvisi di campi di farfalle, ai libri rubati alla regina Mab con pagine d’acqua e lettere sciolte in frasi impossibili, fino ai nuovi grandi Mandala per i quattro elementi che portano ancora oltre il messaggio di Annalù.
Per comprendere meglio questo oltre, occorre andare un po’ indietro nel tempo, a quando si parlava, io e Anna, di “Gutta cavat lapidem” uno dei suoi ultimi lavori più suggestivi e difficili, per tecnica e dimensione concettuale e di come quest’opera, inconsapevolmente, ne dovesse partorire altre: quel senso di profondità, quella spirale di petali ed ali che generava un vortice senza fondo, inghiottiva volutamente occhi e realtà.
Ma l’introflessione virtuale era destinata ad altri tentativi di estroflessione…
I suoi petali anzi, le sue ali, adesso dovevano operare una trasformazione, tramutarsi esse stesse nella rimembranza di tempi lontani: “c’è un’acqua che dorme nel fondo di ogni memoria”(Bachelard), acque dolci e profonde, fredde e ricche di pesci e strani esseri con scaglie variopinte, una mutazione che diventa presagio, scaglie che si trasformano in nervature leggere, nuovo tempo di libertà, voli inaspettati per una vita che dall’acqua arriva all’aria tentando trasformazioni in nuovi respiri.
Così Annalù ha pensato i suoi grandi Mandala, ispirati ai quattro elementi – che ormai le appartengono – dove i suoi petali sono mutazioni incessanti e diventano scaglie ed ali raccolte in vortici concentrici per implosioni od esplosioni che convergono comunque lo sguardo al centro. E proprio lì ha liberato la sua nuova ricerca espressiva: in un tentativo di “donarsi” fisicamente allo spettatore.
I suoi centri sono, adesso, piccole sculture da toccare, staccare dal quadro ed indossare: il concetto di “gioiello” esiste ma è oltrepassato sia nella preziosità del soggetto, ma soprattutto nel far divenire il fruitore, parte integrante dell’opera, o ancora meglio condividere con l’artista una piccola parte di se. Indossare un’opera è un’operazione tanto innovativa, quanto suggestiva per emozione e condivisione: portare con sé il centro di un quadro che ti aspetta a casa, per ritornare opera completa del suo “cuore”, è dare nuova forma al “tempo” nella sua condizione migliore dell’attesa.
Impariamo tutti a parlare del tempo, ma quando all’improvviso qualcuno ci domanda cosa esso sia, ci lascia sconcertati con uno stupore pari a quello che provò Sant’Agostino oltre quindici secoli fa ponendosi il medesimo quesito:”Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno mi interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi mi interroga, non lo so.”
Quindi il tempo nel linguaggio proprio della filosofia, appartiene all’indicibile e all’invisibile. E’ qualcosa che si offre alla vista e che allo stesso tempo si sottrae ad essa e che si può cogliere nella sua essenza solo guardando attraverso ciò che ci appare, ponendosi al limite fra ciò che è e ciò che non è. Può sembrare complicato, ma Annalù riesce forse a semplificare questo ancestrale concetto di tempo. Nei suoi tentativi di fermare nella “resina” il suo scorrere: una foglia può non morire se cristallizzata nella sua forma, l’acqua stessa prende forma di pagina e come l’onda muove solo lo scorrere di un racconto o la memoria segreta di un diario, un farfalla vanterà per sempre la sua impalpabile bellezza nelle ali che forse tentano ancora voli.
Questo pone l’osservatore proprio fra ciò che è e ciò che non potrebbe essere…
Così impariamo che lo scorrere del tempo è effettivamente relativo, nelle scelte espressive di un’artista che ama il riflettere e non la sua riflessione, ama l’equilibrismo e non la certezza di un equilibrio, il tempo del rispetto e non il rispetto dovuto del tempo, la trasparenza dell’Arte e non solo l’arte della trasparenza, sempre e comunque nell’amore per gli altri, per la libertà e per lo scorrere di un pensiero.
Sono oggi i tempi dell’effimero, dell’apparenza scintillante, del voler sembrare piuttosto che del voler essere, del lasciarsi vivere invece del voler vivere, tutto ciò sempre a discapito della qualità che non si è mai sposata bene nè alla fretta, nè alla velocità e quanto mai alla superficialità.
Ecco che allora una mostra come “Reverie” che ci parla di un tempo sospeso fra realtà e percezione di essa, fra immaginazione e sogno, è un doveroso omaggio al rispetto della cultura di altri tempi che dovrebbero ritornare più nostri: i tempi dell’osservare con attenzione, del vedere per dedicarsi momenti di condivisione di pensieri e leggerezza. Quella “reverie” che omaggia e sposa la “leggerezza” già citata di Italo Calvino, tanto leggera quanto profonda per spessore e filosofia del vivere.
Milan Kundera ha scritto pagine memorabili circa la questione del tempo e del suo vivere: “Dar forma a una durata è l’esigenza della bellezza, ma è anche quella della memoria. C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Nella matematica esistenziale questa esperienza assume la forma di due equazioni elementari: il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio”.
Ed è con questa utopia tenace della memoria e del non tempo che Annalù continua la sua incessante ricerca e dedica la sua energia, in un lavoro appassionato, senza resa, di fronte alla precarietà dei miti che segnano il contemporaneo: l’Altrove dell’arte è, per lei, ostinatamente lo spazio capace di liberare l’esistente dalla sua “opaca” realtà: accade allora di ricollegare i frammenti, di immaginare l’assoluto inventando percezioni, sguardi, visioni oltre e attraverso ciò che la vita ci dona o ci ha regalato; allora l’opera diviene soglia che, tramite il velo della sua “trasparenza”, svela “altro da sé”. O tenta di contenere la memoria della condivisione.
Per arrivare all’ultimo lavoro che Annalù ha realizzato dopo uno dei suoi personalissimi “viaggi della memoria”, quando la mente apre un varco e si resta in sospensione fra reale ed immaginario, fra percezione e visione: “Da piccola andavo spesso sulla spiaggia con mio padre ed uno dei giochi che preferivo era scavare la buca più profonda, tanto che diventava sempre una gara con papà, ma lui riusciva a scavare per me una buca così grande da poter vedere l’acqua e con essa lo specchiarsi del cielo dentro la buca stessa, così che io potessi vedere cielo ed acqua insieme…”
Un deja-vù per molti di noi, un ricordo intimo eppure che ci riporta tutti indietro nel tempo, quando la sabbia era la compagna della fantasia: castelli, formine, piste e buche, tante buche. E papà che ci accontentava perché la mamma non voleva sporcarsi con la sabbia; così frammenti di affetti condivisi portano Anna a realizzare l’ultimo dei suoi lavori che anche nel titolo pone l’accento ed il rispetto per una concettualità forte che stringe tempo, cuore e spiritualità: “In Nomine patris”, opera unica per tematica e realizzazione.
“In Nomine patris” è una grande borsa, una shopping bag – come la definisce Anna – di quelle che normalmente si usano per contenere di tutto, ma realizzata con “sabbia”, come la sabbia dei nostri ricordi, ricordi di spiaggie e rumori, risa e voci; una borsa che idealmente contiene tutto questo paesaggio di memorie e suoni ma che visivamente contiene solo acqua, quella che si trovava scavando tanto e in profondità, acqua e cielo, come Annalù ha immaginato e visto la sua buca: profonda come la sua anima, trasparente d’acqua come il suo pensiero e fatta anche di cielo come la presenza del padre che è dentro ed intorno a noi. Ma nell’acqua, proprio lì fra acqua e cielo, galleggia una sola piccola piuma bianca…
Tutto questo si trova negli occhi di chi osserva, di chi entra con attenzione nella mente dell’artista, navigatrice solitaria, in acque ricche di presenze e affetti, acque a volte sconosciute, dove si impara che il valore può scaturire dall’emozione vissuta un giorno davanti alla memoria della visione di un Angelo, osservato per ore, nel silenzio. Dove non sempre il silenzio è un vuoto di parola, la trasparenza un vuoto d’immagine, essendone talvolta la più emozionale delle soglie.
Daniela Del Moro
“Pensate che da un’umile farfalla
Può uscire un angelo fiorito.
E’ questo che vi sfugge:
l’anima e l’attimo della Creazione”
(A. Merini)