CRITICA DI ANGELO CRESPI (2022)Alchemica

La furiosa bellezza dei tondi di Annalù

Innanzitutto c’è la questione del cerchio, o per meglio dire del tondo che è la forma con cui spesso Annalù si esprime.

Una questione ancora poco analizzata dalle precedenti critiche e che vale la pena estrinsecare, almeno nei suoi contorni, poiché non è cosa usuale che un artista preferisca il tondo al quadrato, tanto che per antonomasia chiamiamo “quadri” anche tele di forme diverse, resistendo in noi l’archetipo del quadro-finestra-dipinta. Il tondo invece rimanda ad altro, ai rosoni delle chiese, per esempio, che hanno funzione più esornativa che di illuminazione, alle ruote delle macine e dei mulini, ai grandi ingranaggi dell’industria novecentesca, o a quelli più fragili degli orologi.

La circonferenza, scontato dirlo, ha una valenza magica: simbolo della perfezione, del tempo ciclico, della rinascita, emblema dell’universo e del mondo, dell’infinito che presagiamo, ma che possiamo cogliere al meglio soltanto attraverso una sua raffigurazione geometrica, il cerchio appunto. Certo non mancano nella storia dell’arte illustri esempi di opere che si esplicano nella forma circolare, a partire dal celeberrimo Tondo Doni di Michelangelo, passando per la testa di Medusa di Caravaggio, fino ai recenti Mandalas di Damien Hirst che hanno all’apparenza non piccole affinità con i lavori di Annalù soprattutto per quanto riguarda le farfalle che li compongono, nel primo vere infilzate, nella seconda ricostruite in resina. Sono però casi isolati nella storia dell’arte, micro variazioni all’interno di teorie pressoché illimitate di quadri, quasi che il quadrato fosse la forma rassicurante per mostrare e il cerchio, invece, una devianza utile per alludere.

Seguendo questo ragionamento, la prima allusione è di tipo estetico fenomenologico e vale per i Dreamcatcher di Annalù che sono, a mio parere, tra le sue opere le più potenti, proprio per la mediazione immediata di una furiosa bellezza. Il tondo, in vetro di Murano e resina, più altri materiali compositi e naturali, sembra frutto di un’esplosione che però non deflagra mai fino a disperdersi, la forza centrifuga impressa trova un bilanciamento nella forza centripeta, così lo sguardo è costretto a muoversi tra il fuori e, riprecipitando, il dentro, in un continuo sforzo tra concentrazione e dissipazione, un moto oculare esasperato dal vorticoso procedere degli elementi che si tengono in fragile equilibrio, farfalle e foglie, nel colore prima intenso, verso il centro, e poi ai bordi sempre più rarefatto. I recenti studi di neuroestetica spiegano che l’arte astratta – e così potremmo definire quella di Annalù, al di là del ricorrente uso di farfalle e foglie – attiva, pur senza l’uso di figure, i cosiddetti “meccanismi incarnati” in grado di simulare azioni, emozioni e sensazioni corporee nello spettatore, provocandogli un senso di coinvolgimento non solo mentale ma corporeo, indotto dai movimenti implicati dalle tracce fisiche o dalla forza dei colori presenti nelle opere che si stanno osservando. Così siamo quasi costretti a ruotare occhi e addirittura corpo, avvicinandoci e allontanandoci da queste ipnotiche esplosioni-implosioni che è impossibile cogliere unitariamente se non nel movimento, cioè con uno sforzo cinetico di tutto il nostro essere.

La seconda allusione è di tipo filosofico teologico gnoseologico, essendo che il cerchio anche nelle opere di Annalù, si pensi ai Light disc, squaderna significati ulteriori rispetto alla mera questione formale e ci permette una conoscenza soprasensibile e non analitica, cioè non causata dalla mera esperienza misurabile, semmai derivante dal puro intelletto o inerente alla sfera della trascendenza. La circonferenza rappresenta l’infinito, inteso come ciclico ripetersi del tempo e il tondo rimanda, ovviamente, a forme archetipali come il mandala che primordialmente rappresenta uno spazio orientato attorno a un centro sacrificale. In tutte le culture antiche resiste questa idea di sacro, tecnicamente un luogo reso tale per mezzo di un sacrificio che si è compiuto nel suo perimetro: per esempio, nelle pietre sacrificali azteche, enormi monoliti tondi di pietra incisa adibiti ad are, sui quali veniva squartato il sacrificato al fine di estrargli il cuore e donarlo palpitante al dio; ed è questo palpitare d’ali di farfalla nei Dreamcatcher di Annalù la memoria che echeggia, di vita e di morte, di umano e divino, nell’inconsistenza dei colori si esalta la finitezza di questi piccoli animali.

Il centro della circonferenza dei Dreamcatcher ha poi un ulteriore significato, di omphalos, direbbe René Guénon, di ombelico del mondo, l’epicentro da cui si sprigiona il tutto, luogo di profezia sul quale erigere il tempio, come a Delfi dove l’oracolo prediceva fortuna e sventure seduto su una pietra di forma conica a rappresentare il perfetto centro del centro della terra. I mandala di Annalù rimandano dunque a qualcosa di profondo e archetipale: il punto focale della scultura – realizzato con un disco di vetro murano, la cui produzione prevede una rotazione centripeta che imprime alle murrine colorate una disposizione a spirale aurea – non è dispersivo bensì ha paradossalmente la forza attrattiva di un aleph dentro il quale, racconta Borges, si concentra in uno spazio preciso la visione di Dio, cioè la visione di tutte le cose, da tutte le angolazioni, in tutti i tempi possibili. E l’attrazione, paradossalmente, è anche una negazione, una sorta di buco nero, il punto esatto dove scompaiono le cose, e che altri artisti hanno indagato con uguale sentimento (si pensi ad Anish Kapoor, alle sue installazioni tipo Descent into limbo in cui il nero assoluto da lui brevettato serve per ingannare l’occhio, costringendo lo sguardo a precipitare nell’indefinito, a nullificarsi).

Per quanto riguarda il resto della produzione di Annalù, ne ha già delineato in modo efficace modi e risultati Alessandra Redaelli quando ne sottolinea le “insostenibili leggerezze”, le trasparenze, la materia che sembra respirare, la sublime ma concreta liquidità: caratteristiche che permettono all’artista di imprimere un carattere lirico e di sogno ai suoi lavori che siano gli alberi della serie dei bonsai “battuti dal vento” e “piangenti” (Fukingashi e Kengai), o che si tratti dei Liquid flowers, o ancora dei Light disc e dei Water books. L’elemento comune è quello della vetroresina, il materiale preferito di Annalù, in grado di rammemorare l’acqua, elemento biografico da cui l’artista trae costante ispirazione, fermandone però l’insita fuggevolezza, ed è qui che si gioca la partita tra tempo ed eternità, essere e divenire, caos e bellezza organica, natura ed artificiosità. Una sorta di antifrastico desiderio di tenere insieme gli opposti sembra essere il fine di un’operazione, solo in apparenza estetica, in realtà di grande intensità metafisica.
Dalla volontà di sperimentazione che ha sempre contraddistinto la carriera di Annalù derivano infine alcune opere che sono diventate NFT, ma che non sono semplici riproposizioni in video delle sculture, sono una loro dilatazione concettuale, essendo che la trasposizione digitale permette un’ulteriore narrazione onirica.