CRITICA DI ALESSANDRA REDAELLI (2022)Onirica
La prima sensazione che si prova davanti alle opere di Annalù è squisitamente sinestetica. Quello che avvertiamo mentre la materia cattura lo sguardo assomiglia a uno scroscio, un suono morbido ma al tempo stesso assoluto e ineluttabile. Un frangersi di onde davanti allo tsunami che si alza al centro dei Dreamcatcher, oppure un fruscio intenso, come un sussurro di creature fatate, mentre fissiamo lo sguardo sulla chioma inquieta degli alberi scossi dal vento, un fruscio che si intensifica nel momento in cui ci accorgiamo che quelle foglie sono ali, che da qui a un istante tutto volerà via.
Non capita spesso, oggi, in un panorama artistico amplissimo, sì, ma in qualche modo strutturato su sistemi assodati e su strade già percorse, di avere a che fare con un’artista che ha saputo inventare qualcosa di completamente inedito. Perché se è vero che la resina è un materiale oramai sdoganato all’arte, la resina come ce la presenta Annalù, contaminata di natura selvaggia e di artificio, mescolata alla grande tradizione del vetro di Murano così come alle ultime frontiere della tecnologia, ha un sapore totalmente nuovo e raggiunge esiti unici. E il primo è proprio quello dell’impatto visivo straniante, dovuto non solo alla sensazione diffusa di cui dicevamo prima, ma anche all’immediata consapevolezza che quel senso di leggerezza, di freschezza del gesto, quasi come se l’oggetto che abbiamo davanti fosse scaturito da un fenomeno naturale, porta dentro di sé la fatica di un lavoro lungo e meticoloso, di una battaglia con la materia, di un complesso pensare e progettare.
L’incontro di Annalù con la resina ha qualcosa di fatale. Fin dalle prime opere, la sua ricerca va nella direzione della leggerezza, dell’ineffabile, ma soprattutto il richiamo forte è alla trasparenza dell’acqua. E’ l’acqua, in effetti, l’elemento alchemico di questa artista. La vicinanza delle sue radici con Venezia, innanzitutto, che di acqua mobile, inquieta, inafferrabile è sostanziata. E poi l’acqua come fattore determinante nella vita della sua famiglia da generazioni, a partire da quella nonna che traghettava i viaggiatori tra le due sponde del Piave, a Passarella. Fino alla scelta dell’artista di vivere in una casa palafittata, come se l’acqua fosse un elemento del quale non può permettersi di fare a meno, sirena contemporanea che ogni tanto deve ritrovare la sua coda squamata.
Ed è la resina, dunque, che le insegna a fare qualcosa che prima sarebbe apparso impossibile: scolpire l’acqua. Resina amata e combattuta, passione e tormento, elemento prezioso ma da affrontare armati di maschera e doppi guanti, perché il suo splendore cela un’anima pericolosa, come una belva da domare. Negli anni la doma, Annalù, imparandone i segreti e sfruttandone le infinite qualità, inventando un sistema per regalarle la trasparenza del diamante e quella sinuosa fluidità che tanto ci seduce, sgocciolandola in un’apparenza altra – liquida appunto – e armandola per renderla solidissima.
Sulle molteplici note della resina, Annalù compone la sinfonia misteriosa di cui è sostanziato il suo lavoro, una sinfonia giocata sempre, inderogabilmente, sull’equilibrio tra due opposti, sulla fascinazione dell’ossimoro. Quello di una leggerezza potente, assertiva, che non lascia scampo e che si impone allo sguardo; quello di una natura artificiale: viva fino al dettaglio delle venature, della linfa, del sangue e tuttavia così perfetta da non essere pensabile nel mondo; quello tra la realtà tangibile e l’impossibilità del suo esistere così come ci viene mostrata; quello della solidità liquida, che continua per l’eternità a stillare e tuttavia non si esaurisce mai in un vero movimento perché salda nella sua immobilità; quella di un merletto che si srotola con la perfetta regola di un frattale e poi si rivela libero e selvaggio come un’onda schiumosa.
Lo spazio in cui ci si muove è quello di una realtà altra, come quando ci si addentra in un sogno e ci si rende conto che scene apparentemente logiche sono tenute insieme da una trama di cui si è smarrito il senso. Eppure la ricerca ci intriga: non vediamo l’ora di aprire la prossima porta, certi che fornirà la spiegazione prima del risveglio.
E come nei sogni, la simbologia qui è potente. Disseminata in dettagli che leggiamo gradualmente, incantati dapprima dallo splendore a tratti neobarocco di un’apparenza sontuosa e poi, lentamente, spinti ad approfondire sempre di più. Prendiamo le farfalle, che si librano vibranti dalle chiome degli alberi o dai Dreamcatcher. La prima cosa che ci colpisce è la bellezza, ovviamente. Quel colore vivido che nasce dalla tradizione delle murrine veneziane e che l’abilità dell’artista rende palpitante. Poi, però, cominciamo a cogliere la farfalla nel suo senso più completo, intuendo la necessità spasmodica di quel volo imminente, perché parte di un destino da compiersi subito: l’animale, infatti, non condivide solo lo splendore del fiore, ma anche la brevità della sua vita. E poi, se abbiamo voglia di scavare ancora, ecco che la farfalla assume anche il suo significato di “psiche”, di anima. E improvvisamente il centro di quel vortice perde la sua connotazione squisitamente estetica rivelandosi come uno stargate, un punto di passaggio verso un’altra dimensione. Di colpo, l’oggetto che abbiamo davanti si amplifica, si dota di doppi e tripli fondi, e la sensazione di ipnotica attrazione che provavamo trova una spiegazione.
Annalù ripensa il ruolo dell’artista sciamana in una chiave contemporanea ma anche con un alfabeto particolarissimo, nel quale la bellezza, la soddisfazione estetica, non è mai messa in secondo piano. E’ un’alchimista che sotto il nostro sguardo stupefatto trasforma la materia e solidifica l’acqua, ma è anche una donna che corre coi lupi – o più appropriatamente che cavalca i delfini – capace di imbandire per noi incantesimi nei quali perderci, dapprima, e poi ritrovarci più ricchi e consapevoli.
Come quando inserisce onde d’oro nel vortice turchese dei suoi Dreamcatcher e noi, quasi inavvertitamente, sentiamo risuonare nella testa qualcosa che a Venezia ci è entrato dentro: l’oro bizantino, l’orma lasciata qui dall’Oriente.
E questa consapevolezza, di nuovo, ribalta la fruizione, un’altra volta, perché se quello è l’oro mistico allora il blu sarà senza dubbio il manto della Vergine, in un ulteriore arricchimento di stratificazioni di senso alla nostra lettura. Oppure quando decide di fare in modo che le radici dei suoi alberi (radici nodose, tronchi contorti che l’artista recupera nelle acque che scorrono proprio accanto a casa sua e che fa asciugare e riposare per mesi prima di trattarli e farne pezzi del suo lavoro) non si aggrappino a qualcosa di solido ma a una forma trasparente che ci fa pensare al ghiaccio, e allora, di colpo, ci rendiamo conto di come quell’afferrarsi sia spaventosamente fragile e di come quell’albero racconti nella chioma e nelle movenze del fusto emozioni terribilmente umane.
O, ancora, Annalù ci tende tranelli con le sue Sagitte, ispirate alla freccia rivolta verso il basso impressa sul dorso dei cosiddetti “libri proibiti”. Trafitta dalla freccia che immobilizza l’istante, qui la parola scritta comincia a sgorgare come sangue da un’arteria recisa, pronta a invadere tutto, incurante di messe all’indice o di censure, libera di catturarci per restituirci a noi stessi cambiati per sempre; mentre questo sgorgare di pensiero che invade lo spazio porta alla mente il rapimento della lettura, quello che ci travolge sottraendoci alla realtà.
E poi ci sono i merletti liquidi, che se nel DNA hanno le ricerche dell’artista di qualche anno fa (i Kilim e le conchiglie Nautilus, dove si avventurava a cercare le misteriose regole matematiche che sottendono la natura e la bellezza) portano in sé nuove narrazioni dove si incrociano leggende di sirene e impalpabili veli da sposa, la tradizione del merletto di Burano e la trasparenza del vetro muranese, la materia soffice della trina e quella inafferrabile dell’acqua del mare.
Mille suggestioni diverse si intersecano in questo alfabeto multiforme e cangiante, e d’un tratto volti lo sguardo da quello che ti pare un arazzo orientale intessuto da una fata e ti trovi a fissare una spirale di colori che ruotano come gli occhi del serpente Kaa, pronti a ipnotizzarti e a inghiottirti. Stampe lenticolari con l’effetto del movimento, colori che mutano sotto il nostro sguardo, superfici piane che si rivelano misteriosamente tridimensionali testimoniano l’ingresso di Annalù in un oltre tecnologico che non poteva prima o poi non fare suo.
E subito, un attimo dopo, ecco i piedi alati di Hermes, in bronzo, questa volta, dove è ancora la farfalla a dare la direzione del volo, figli dei Salti nel blu di qualche anno fa, dove il corpo si faceva acqua purissima, spruzzo sollevato in quell’ultimo passo che porta a spiccare il volo.
E in fondo, a pensarci bene, il più grande pregio di tutto il lavoro di Annalù, ciò che rappresenta la sua essenza più preziosa, è la capacità di catturare l’attimo e di immobilizzare qualcosa che potremmo chiamare – un altro ossimoro – l’istante eterno. Perché non c’è niente di più emozionante che illudersi di poter fermare l’istante. Fissarlo in un pezzo di materia e poterci permettere di osservarlo. Concederci, insomma, di esistere nella perfetta armonia del presente. Come insegnano i maestri zen. Qui e ora. Circondati di bellezza.